Como e il suo territorio: uno storia di migranti
Lasciamo pure da parte il peccato originale: che, cioè, anche i comaschi “originari” siano alla fin fine dei preistorici immigrati (sia che arrivassero da sud ovest – essendo Liguri – sia che provenissero da nord est – e quindi fossero Celti). Bisognerebbe però riflettere su come il movimento sia una delle leggi fondamentali non solo della vita, ma anche della storia: letteralmente, stando fermi, non si va – nel bene e nel male – da nessuna parte.
Lasciamo da parte anche il momento della ri-fondazione di Como in epoca cesariana: nel 59 a.C. Giulio Cesare fece costruire Novum Comum per 5000 famiglie di coloni, di cui 500 erano sicuramente greco-sicule (ce lo assicura la Lex Vatinia de colonia Comum deducenda). Non si dovrebbe, però, dimenticare che anche gli altri 4500 erano soldati forestieri e che quindi la “città storica” nasce da quella che, in termini moderni, si dovrebbe definire “occupazione militare”.
Arriviamo in tempi più vicini alla nostra epoca in cui sono presenti categorie più simili alle attuali: gli “immigrati”, i “diversi”, gli “stranieri”.
Como porta nel suo essere il destino di città di transito (non necessariamente di frontiera, poiché il confine è fatto relativamente recente: la conquista delle valli ticinesi da parte dei cantoni svizzeri ultramontanti risale all’inizio del Cinquecento e la definizione della linea confinaria alla metà del Settecento), è città posta su un percorso di fondamentale connessione tra il mondo mediterraneo e quello mitteleuropeo: non può quindi stupire il fatto di ritrovarvi numerosi “stranieri”.
I mercanti tedeschi, per esempio, ne fecero tra Quattro e Cinquecento una base stabile dei loro commerci; un gruppo consistente di “alamanni” è documentato in città, e alcuni furono presenti per più generazioni. Più o meno nella stessa epoca compare sulle sponde del Lario anche qualche ebreo, proveniente da Milano e impegnato nella principale loro occupazione, il prestito di danaro (che, a dispetto dei problemi e del disprezzo che ha sempre suscitato, risponde a una precisa esigenza di liquidità del territorio). Gli ebrei sono mal tollerati ed entro la fine del Cinquecento di fatto abbandonano la città; nonostante ciò, e nonostante l’esiguità della comunità, gli ebrei lasciano a Como un segno stabile della loro presenza: una via del centro (una porzione dell’attuale via Indipendenza) è denominata “contrada degli ebrei”, poiché un ebreo residente in parrocchia di S. Fedele, di nome Cressino, contribuì nel 1574 alla sistemazione della strada presso la casa da lui affittata fin dall’anno precedente.
La memoria degli zingari in epoca moderna, viceversa, è affidata solo a feroci bandi che vietano loro anche solo di avvicinarsi ai paesi e che ne consentono l’uccisione e la depredazione.
Tra gli stranieri di passaggio è documentato anche un Giacomo “d’Armenia” il quale morì a Como nel 1576, mentre era in quarantena presso il lazzaretto di S. Clemente di Geno: era straniero, ma non povero, visto che nell’inventario dei beni da lui abbandonati con la morte compaiono gioielli, cammei, pietre preziose (non si può fare a meno di notare che il forestiero non fu oggetto – almeno in questo caso – di rapina).
Unico caso in tutta la documentazione finora raccolta sugli stranieri a Como, è la presenza, nel 1609, in casa del mercante Bonaccorso della Porta, abitante in centro, di una “schiava”, per la precisione una “turcha nominata Emina”. Se la “turcha Emina” fosse musulmana, il documento che la riguarda sarebbe uno dei pochissimi che, prima del Novecento, prende in considerazione sul nostro territorio gli appartenenti a questa religione. L’altro, assai più recente, risale al 1826, ed è la formula di giuramento adottata nei tribunali austriaci per gli islamici, per i quali evidentemente giurare sulla Bibbia non aveva alcun senso (precoce esempio di “relativismo culturale”, se così si può dire, anche se esclusivamente votato a garantire l’efficienza del sistema della giustizia).
In tempi più recenti, furono le popolazioni locali ad essere protagoniste della migrazione: dopo le migrazioni stagionali dei secoli dell’antico regime, nel corso dell’Ottocento e fino ai primi decenni del Novecento, dalle terre lariane si emigrava oltre le Alpi (soprattutto in Svizzera), ma anche oltre oceano, negli Stati Uniti e più ancora nell’America Latina. Nel frattempo, gli stranieri sul territorio comasco erano soprattutto mercanti, imprenditori, investitori; molti, per esempio, sono gli svizzeri, attivi in ogni campo, dall’industria tessile a quella editoriale, dagli alberghi ai negozi. Migranti “di lusso”, ma sempre migranti, e come tali su di essi si esercita l’occhio vigile del controllo burocratico e poliziesco: i forestieri sono pericolosi per definizione; anche quando sono ricchi è meglio non perderli di vista. Ripetutamente, quindi, i diversi governi emanano decreti per la verifica degli stranieri residenti o delle persone di religione diversa da quella cattolica, fino alla tragedia finale: all’indomani del proclama che, nel dicembre 1943, impone l’arresto e il concentramento di tutti gli ebrei residenti nel territorio della Repubblica Sociale Italiana, il Comasco si riempie di persone che cercano la via dell’espatrio clandestino in Svizzera. Sono giorni e settimane in cui le storie personali si intrecciarono tra stranieri e non: atti di solidarietà e di eroismo, tradimenti e simulazioni, mostrano tutta la “banalità del male” ma anche quella “del bene”. Per alcuni, stranieri tornavano ad essere quelli che fino a pochi momenti prima erano i vicini di casa, ma contemporaneamente, per altri, il riscatto si esprimeva nel rifiuto di accettare divisioni tra persone e persone.
Poi negli anni del boom economico arrivano gli immigrati che servono alla produzione: migliaia di persone che si trasferiscono, in cerca del lavoro industriale, dalle terre agricole del Sud Italia a quelle manifatturiere del ben noto “triangolo”. L’impatto tra la realtà locale e quella degli immigrati, entrambe ancora molto chiuse su se stesse, è tutt’altro che privo di problemi: pur senza gli estremi disagi del “FiatNam”, anche a Como l’inserimento di queste persone è prima assimilata all’utilizzo (per non dire allo sfruttamento) della loro forza lavoro e solo dopo all’accoglienza. La ricerca di una casa è per molti un problema drammatico: le “russie” si moltiplicano un po’ in tutti i margini della città e del territorio.
Questa fase di grande mobilità interna si conclude, grossomodo, entro la fine degli anni Sessanta. Non passano neanche due decenni e la dinamica si ripete a scala più grande.
Il fenomeno della migrazione interessa questa volta il livello internazionale.
Questa nuova fase si avvia all’inizio degli anni Ottanta, quando un primo flusso di profughi provenienti dal Libano transita per Como in direzione della Confederazione Elvetica; i numeri, che allora sembrano imponenti, sono però, rispetto ai flussi di oggi, assai limitati. Molto rapidamente, l’arrivo di persone da altre nazioni acquista caratteri diversi: si tratta di una migrazione “economica” che parte dai paesi del Maghreb, dell’Africa subsahariana, dell’Estremo Oriente. Nel 1991 il Comune di Como istituisce il Centro Servizi Immigrati, gestito dalle ACLI fino al 2001. Mentre si mettono a punto strumenti di accoglienza e, più in generale, di intervento, si ripetono però gli scenari di intolleranza: gli “extracomunitari”, i “clandestini”, i “vucumprà”, sono spesso tenuti ai margini, ma è bene ricordare che anche in quei tragici momenti la città è in grado di rispondere in modo positivo: nel bel mezzo della crisi, nel febbraio 1993, il Comune di Como – con una forzatura istituzionale di non comune valore simbolico – decide di concedere la residenza ad alcuni stranieri accampati negli stabili ormai abbandonati della Ticosa…
Nei decenni successivi l’arrivo di persone da paesi stranieri si stabilizza; alla fine del primo decennio degli anni Duemila sono presenti in città diverse comunità: quella turca (la più numerosa), quella filippina, quella maghrebina (da Marocco e Tunisia), quella latinoamericana (principalmente da Ecuador, El Salvador e Perù), quella cinese, quella srilankese, quella proveniente dall’Africa subsahariana; molto difficile è dare consistenza precisa alle comunità dell’area balcanica, perché in parte appartenenti a culture nomadi; la presenza di persone provenienti dalle nazioni ex sovietiche (quasi tutte donne, impiegate come badanti) è in questo periodo ancora minima. Nonostante i numeri non siano enormi, e perfettamente compatibili con la struttura complessiva della città e del territorio, alcune zone cittadine ne sono profondamente mutate, soprattutto nella percezione collettiva (un caso per tutti: via Milano alta…).
La situazione è comunque in continua evoluzione, e le caratteristiche degli arrivi degli ultimissimi mesi (esuli da paesi in stato di guerra o guerra civile, soprattutto dal Corno d’Africa) richiedono una attenta, rinnovata attenzione.
Però, se un insegnamento si può trarre da questa storia secolare, è che la migrazione non è mai un’emergenza, ma un fenomeno strutturale, con cui bisogna fare i conti.
[Fabio Cani, Como senza frontiere]